Dietro l’albero

Ore 15 circa. Una villetta tra la campagna e il mare del sud Italia.

Cari lettori, dovete sapere due cose prima di continuare a leggere questo piccolo resoconto: la prima è che io scrivo, scrivo… ma poi agisco poco, non tanto per restare casta fino al giorno del Giudizio universale ma perché non ho molti vizi. I vizi mi piacerebbero, e tanto, ma non me li posso permettere. Non sono che una semplice impiegata, tendente al “precariato”, secondo la moda dell’Italia di oggi; poi casalinga e pure mamma.

Oh, intendiamoci, non sono un’educanda… forse da questo nasce il mio sfogo di scrivere racconti erotici.

La seconda cosa, è che sì, lo confesso, anche io ho una mia piccola forma di depravazione. Da ragazza, quando facevamo all’amore col fidanzatino di turno, ci si arrangiava: niente alberghi, raramente si rimediava una casa o una precaria garconnière.

Per lo più si scopava alla svelta, in macchina o in qualche luogo più o meno appartato. Ora, dato che sono molto lenta nel provare piacere, in quell’epoca non riuscivo a godere quasi mai.

Però la precarietà e il pericoli di essere visti e scoperti (questo l’ho capito molto dopo) giocavano a favore del mio “compagno”.

Tutti gli adolescenti soffrono o, meglio, godono, di eiaculazione abbastanza veloce, quindi, se la cavavano alla svelta con i preliminari (quelli che a noi ragazze piacciono tanto), e cercavano subito di andare al sodo, eiaculando il più presto possibile.

Magari, se la pace della “location” lo permetteva, se ne facevano tre o quattro, quasi di fila.

Questa precisazione mi serve per confessarvi la mia fantasia erotica: dopo, quando raggiungevo la mia casetta tranquilla e gli spazi a me familiari, subito dopo “tempesta”, nella quiete di camera mia o chiusa nel bagno, mi dedicavo a una lunghe e deliziose masturbazioni. Libera da affanni e senza fretta, mi attardavo deliziosamente sulle mie grandi labbra e sul clitoride, spesso ancora provato dalle decise e ripetute penetrazioni degli irruenti compagni di gioco.

Mi piaceva titillarmi, e cercavo di farlo al più presto possibile, in modo da ritrovare l’inguine ancora irrorato di sperma, a volte secco, altre volte caldo, liquido e copioso. Lo lasciavo fluire, a goccioloni, dal mio buchetto e me lo trastullavo tra le dita, usandolo come lubrificante. Era odoroso d’uomo… e molto, molto eccitante.

Questi momenti di estasi mi portavano a fantasticare e le mie fantasie, erano incentrate su questi punti fondamentali: essere vista o spiata mentre facevo sesso col mio ragazzo e donare piacere a uno sconosciuto.

Non era tanto l’idea di essere posseduta per mio “gusto”, al contrario, il mio gusto, nei ditalini solitari, era rappresentato dal lasciare il mio corpo alla mercé di chi tanto lo aveva spiato, desiderato, sognato. Una specie di premio inatteso, una vincita alla lotteria, in cui non avrebbe mai sperato.

Tutte fantasie che ritenevo irraggiungibili e irreali, immediatamente dopo aver goduto.

Poi sono passati gli anni e, grazie al mio attuale compagno che, come ho scritto più volte, mi permette di esprimere la mia sessualità come meglio credo e grazie al WEB, qualche sfizio me lo sono potuto anche togliere. Poca cosa, intendiamoci.

Con il mio uomo abbiamo imbastito, qualche volta, del sesso a tre, il cosiddetto: cuckold.

Altre, poche volte, abbiamo fatto l’amore davanti a tutti, diciamo così, in web cam, su un sito porno.

In entrambi i casi, nonostante io abbia goduto, abbondantemente, nel compiere l’atto (lui è molto attento alle mie esigenze) ho conservato la mia vecchia abitudine giovanile: una sana masturbazione, in pace e tranquillità, ricercando e ritrovando i segni dell’avventura appena trascorsa.

La seconda cosa che dovete sapere è che, quello che vi racconto ora, è successo proprio a me, ieri pomeriggio, in maniera del tutto casuale.

Dato che la settimana prossima è Natale, la direzione della Ditta per cui lavoro ha preferito incontrare anticipatamente i dipendenti, per gli auguri di rito. Classica fetta di panettone che, notoriamente, ti resta sullo stomaco in un orario del tutto inaccettabile seguita da un pessimo spumante, caldo, che ti inferisce il colpo finale; le solite chiacchiere; qualche pettegolezzo; discorso noioso e falso!

La cosa positiva è che poi sono riuscita a tornare a casa verso le tre, in notevole anticipo sul solito orario. DUE – Caffè e… Stuzzichini.

Ero completamente sola e, al contrario di me, il mio lui sarebbe tornato la sera, e pure abbastanza tardi.

Stressata e con la testa già oberata da tutti i pensieri delle cose che avevo da fare, mi concessi una stravaccata occasionale sul nostro divano.

Il tempo di togliere le scarpe, dolose Chanel, nere, mezzo tacco, ideali sotto il tailleur grigio ma, adesso, del tutto inadeguate.

Indugiavo, con le gambe stese, accarezzata dal torpore e tentata dall’idea di un piccolo, innocente, pisolino. Però, non potevo permettermi di abbassare troppo la guardia. Sarei dovuta comunque uscire ancora; avevo tanto da fare e rimettermi in attività dopo il sonno, mi avrebbe ancora più stressata.

Svogliatamente diedi una controllata alla borsetta, che avevo lasciato cadere, intanto cercavo di rinvenire, sperduto tra gli anfratti del divano, il telecomando della TV.

Sul cellulare c’era un messaggio, era Eddy, mi diceva che sarebbe tornato verso le nove e che ci pensava lui a recuperare nostra figlia dai nonni.

Che tesoro: un pensiero in meno!

Dovevo fare pipì, ma i bagni sono di sopra, e non trovavo la forza per alzare le chiappe dal divano. Intanto, il maledetto telecomando non veniva fuori.

Il silenzio del meriggio e la luce soffusa che attraversava le tende, invitavano al relax.

L’incanto venne rotto dal classico ronzio aggressivo di una sega elettrica, mi scosse prendendomi di sorpresa. E’ un suono a cui ci si abitua, in campagna. Novembre e dicembre sono dedicati alla potatura e nelle macchie e nei frutteti diventa un concertino che non si ferma mai, infatti, dopo, la legna dev’essere tagliata in ciocchi che serviranno per forni e camini. Non è un suono spiacevole, se ci fai l’abitudine.

Questa volta, però, il suono era un po’ troppo vicino per non attrarre l’attenzione. Significava che c’era qualcuno molto vicino a casa; non che avessi paura ma, visto che abbiamo le porte sempre aperte (pessima abitudine, lo so), mi decisi, comunque, a dare una controllata fuori.

Era anche un sistema per scuotermi dal magico torpore e riprendere l’attività. Gli zoccoli erano fuori portata, rimisi le scarpe da città. Uscii, ancora in tailleur, senza cappotto, tanto fuori era tiepido, era stata l’ennesima bella giornata, piena di sole.

Intanto, le raffiche della sega risuonavano a scatti prolungati ma ancora non ne vedevo l’autore. Girai dietro la casa e, a pochi metri, su una scala, vidi don Liborio, un vecchio pensionato delle Ferrovie che faceva servizi da giardiniere un po’ per tutto il vicinato.

Come gli uomini di una volta, aveva la campagna nel sangue e lavorare con le piante era la sua passione.

A casa sua, più sopra della nostra, aveva pure qualche animale, che sapeva governare a regola d’arte, infatti era tra i nostri fornitori di fiducia altro che “prodotti bio” e tracciabilità… Don Liborio, a prezzi amatoriali, ci procurava spesso qualche soppressata genuina, formaggi, uova e altre prelibatezze.

Era una figura tipica per il nostro sentiero, appena carrozzabile, ed era sempre impegnato a far qualcosa.

Insomma, un brav’uomo.

Nonostante fosse vicino alla settantina era ancora in forma: asciutto, con la pelle che sembrava di cuoio, per i tanti anni all’aria aperta.

Le grosse mani armeggiavano con la sega, colpendo, senza titubanze, i rami di un grosso castagno, le cui foglie erano quasi tutte cadute. Approfittai di una pausa per salutarlo:

– Ehilà, buongiorno! – gridai, facendomi scherno agli occhi con il palmo della mano. Lui sentì e si voltò, con il suo solito sorriso bonario. Mi scaldò il cuore; pensai che in oltre dieci anni, non l’avevo mai incrociato senza che mi donasse un sorriso. Che brava persona… eh, gli uomini di una volta!

– Buongiorno, signo’! – rispose immediatamente e si precipitò dallo scaletto, per venirmi a salutare – Scusate, vi ho disturbata? Io pensavo che non ci stavate, mi era sembrato che non c’era la macchina vostra…

– Ma no, don Liborio – risposi sorridendo a mia volta – non vi preoccupate… anzi, mi fate compagnia. Quando ci state voi in giro, mi sento più sicura.

– Eh, signo’, ormai so’ vecchio! – mentre parlava, notai che, comunque, adesso che non aveva la luce del sole negli occhi, pur facendo finta di niente, non riusciva a evitare di spiarmi le gambe, slanciate dalle calze grigie e dalle scarpette col tacco. Avevo la gonna sopra il ginocchio ma non abbastanza da essere una mini, sapevo di non essere più una ragazzina, però mi piaceva, in certe occasioni, ricordare ai miei colleghi che, sotto il maglione abbondante e i pratici pantaloni, si nascondeva una donna, che, nonostante i quaranta, si manteneva ancora tonica e femminile.

– Ma che dite, don Libo’, voi vi mantenete così in forma! Fossero come voi gli uomini di città, dove lavoro io. – risi sincera – I miei colleghi sono tutti rammolliti e parlano solo del pallone. – a quel punto, come al solito, gli chiesi se gradiva un caffè o qualcosa da bere.

Don Liborio si schernì, era troppo discreto, ma poi ammise:

– Veramente un bel caffè lo gradisco, voi lo fate troppo buono… è logico, siete napoletana!

– Bravo, – gli dissi – mo’ ce lo facciamo proprio: anch’io ne ho bisogno; sono appena tornata e mi stava prendendo la sonnolenza. Quando è pronto, vi chiamo.

Me ne tornai verso casa a passo deciso. Stavo per andare di sopra, prima, per spogliarmi e per fare pipì, invece preferii indugiare ancora. Il caffè sarebbe stato pronto in un attimo.

Mentre aspettavo che salisse nella macchinetta, la mia mente vagò, forse solleticata dallo sguardo sorpreso e affascinato del vecchio. Sapevo che era vedovo e, pensai: “Chissà se si masturba mai? Chissà se magari lo ha mai fatto pensando proprio a me?” Dopotutto, ero decisamente la più bella donna del circondario. Senza presunzione ma le altre erano dei veri “gabinetti”, come diceva mio marito. Intorno vi erano famiglie contadine, dopo il matrimonio, le ragazze si lasciavano andare e, a trent’anni, erano già dei bidoni. Dopo aver partorito poi, passavano da donne a mamme; s’ingrassavano, non si curavano, e per vederle vestite in maniera decente bisognava aspettare un matrimonio o una festa importante.

Non senza un pizzico di civetteria, decisi di far entrare il vecchio per prendere il caffè. Mi affacciai dal retro e lo chiamai:

– Don Liborio, venite, il caffè è pronto!

Il vecchio stava controllando alcune cicas, sul bordo del nostro giardino; si voltò, un po’ sorpreso. Aveva sempre da fare e difficilmente entrava in casa di qualcuno, ma non ebbe il coraggio di chiedere che glielo portassi fuori.

Di buona lena, si lavò le mani alla fontanina e, asciugandosi con un fazzoletto che teneva in tasca, si avviò verso casa.

– Non volevo dare tanto disturbo, signo’! – disse, restando sulla porta, poi aggiunse – e vostro marito non c’è?

– No, – risposi – oggi ho fatto prima; non c’è la macchina perché mi ha accompagnato una collega. Sono sola soletta… ma venite, accomodatevi.

Leggermente impacciato, il brav’uomo fece qualche passo.

– E sedetevi due minuti, don Liborio – risi portando le tazze con il caffè fumante. Sul tavolo avevo già messo una bottiglia di acqua minerale, fresca di frigorifero.

– Voi m’avete fatto il complimento? – continuai – E adesso il caffè ve lo dovete prendere come Dio comanda.

Lui accettò di buon grado e sedette, mentre io civettando tornai a sedermi sul divano, naturalmente la gonna scivolò in su, in su, sulle collant grigio topo.

– Assaggiate… e ditemi la verità! – lo guardai con la tazza in mano, fingendo di non vedere il suo sguardo, incollato sulle cosce.

Don Liborio sorseggiò il caffè:

– E’ buono, lo sapevo già. Voi fate il più buon caffè del vicinato. – disse cordiale.

– Grazie… ve l’ho fatto con la mano del cuore! – poi aggiunsi – Sapete, mi stavo quasi per appisolare…

– Mi dispiace – disse lui, confuso – io non sapevo…

– Ma che dite? Si, si … io tengo mille cose da fare… figuriamoci. – Accavallai le gambe e mi misi più comoda – Volevo solo dire che, adesso, riprendere mi rincresce. Figuratevi, parlando con decenza, che non sono ancora salita di sopra, neppure per fare la pipì! –

Don Liborio, preso alla sprovvista, si agitò leggermente sulla sedia. Era un vecchio ed era all’antica, non era abituato a certe confidenze. Gli sorrisi sfrontata:

– Beati voi uomini, che potete farla dovunque… –

Il contadino rise.

– Signo’, in campagna così si faceva… – poi prese coraggio – Senz’offesa: sapete come si faceva, quando ero ragazzo io, tanti anni fa?

– No… dite! – dissi curiosa, non sapendo dove volesse andare a parare.

– Solo le ragazze giovani portavano i mutandoni bianchi, le donne che avevano figliato, insomma le femmine sposate che lavoravano in campagna, non portavano proprio le mutande… tranne quando non potevano farne a meno, voi mi capite.

– Ah ah… e perché? – risi spontaneamente.

– E perchè?… perchè… non vorrei offendere… – fece una risatina nervosa, mentre si alzava visibilmente accaldato.

– Ma dite, dai! Don Liborio, mica sono una ragazzina… – lo presi in giro, mentre il suo impaccio mi dava carica. Non riuscivo a non pensare al suo sesso… ero curiosa. Come lo aveva? Si faceva ancora duro… da quanto tempo non veniva?

– Non le portavano perché pisciavano all’erta… in piedi insomma! – disse lui facendosi coraggio.

– Cosa? Non si accovacciavano neppure? – incalzai.

– Qualche volta sì… – sorrideva, ancora un po’ titubante ma l’argomento divertiva pure lui.

– Noi ragazzini le spiavamo, proprio con la speranza che si abbassavano, per vederle nude. Per questo pisciavano in piedi… allargavano le gambe ma non si vedeva niente.

– Una vita campagnola… – dissi perplessa – e io che pensavo che si proteggessero, di sotto intendo, con due paia di mutande.

– Eh, signo’… il mondo è sempre uguale, credetemi. Anche allora si face all’amore. – Mi guardò con un’espressione sognante, credo ripensasse al passato.

– Il “padrone” se le ripassava quasi tutte, senza vergogna… come il cane. Se ne portava una dietro una pianta e la voleva trovare già pronta.

Un calore intenso mi invase la vagina, costringendomi ad accavallare le cosce dal lato opposto.

– Aspettate… volete un liquorino? – gli dissi, alzandomi a mia volta.

– No, grazie, signo’… sto bene così. Grazie per il caffè … squisito e pure per le chiacchiere…

– Ma volete scherzare? – risposi io – Mi fa piacere sentire le vostre storie… Eh! Chissà quante ne avete fatte pure voi…

Don Liborio rise, ma non disse niente.

– Sapete una cosa? – gli dissi con complicità – Sono anni che vivo in campagna… ma non ho mai fatto pipì all’aperto. Neppure qua fuori, intendo.

Don Liborio rise sinceramente:

– Ah signora mia, e che ci vuole? Voi vi fate un problema che non esiste. –

– Sapete che cos’è? Sono troppo abituata a farmi il bidet, dopo…

Il povero vecchio, del tutto impreparato a tanta confidenza, trasalì, non riuscì a trovare niente da rispondere alla mia sfrontatezza. Più lui si spaventava più io mi eccitavo, adesso. TRE – Una “festa” tutta mia…

I pensieri libidinosi che mi avevano invaso la testa, le curiosità morbose su quel povero vecchio, mi avevano catapultata in un mondo di fantasie erotiche. Giocai la mia carta… ero decisa a vedergli il cazzo. Il pensiero della sua probabile astinenza mi faceva uscire di senno.

– Vi accompagno. – dissi, seguendolo dietro la casa. Poi, più diretta e un po’ troia, dissi con fina ingenuità:

– Mi avete fatto venire proprio la curiosità, vorrei farmi passare lo sfizio… me lo fate un favore?

Il vecchio era nel pallone, non riuscì a darmi una risposta vera e propria.

– Volete farmi la “posta”? – dissi complice e sorridente come fossi veramente ingenua. – Voglio farla qui! Voi vedete se viene qualcuno? Tanto… non ho vergogna di voi, potreste essere mio padre…

Don Liborio non capiva più niente; era talmente confuso che non sapeva nemmeno se facevo sul serio, non sapeva se lo stavo trascinando in un brutto scherzo oppure no.

Non si aspettava nulla di quello che gli stava succedendo, era frastornato, e quella sua, sincera, confusione fu la molla che mi diede la forza di essere più esplicita di quanto non fossi mai stata… in genere sono abbastanza passiva, sessualmente. Non mi sono mai dovuta industriare troppo, sinceramente. Sin da ragazza, sono sempre stata abbastanza bella da dovermi più difendere dalle voglie di un uomo, senza aver bisogno di manifestargli le mie.

Insomma, se cercavo la possibilità di fare sesso non me ne mancava l’opportunità.

La sua ingenuità lo rese innocuo e indifeso, ai miei occhi.

D’altro canto ero più che sicura che l’uomo non avrebbe mai parlato di quella strana avventura: non era un pagliaccio da osteria.

– Dove mi metto? – dissi, con la stessa trasparenza di una ragazzina. Ero stata talmente diretta da fugare ogni dubbio in don Liborio che, ormai alla mia mercé, mi indicò, meccanicamente, uno spazio dietro un basso cespuglio di rose.

Con disinvoltura, essendo estremamente eccitata, mi spostai di poco, nella direzione da lui indicata, ma feci bene attenzione di restare abbastanza in vista per il mio vecchio “amico”.

Cercai un cantuccio dove la terra era abbastanza piana da permettermi di effettuare la mia minzione senza rotolare sul terreno, dopotutto, ero ancora in tacchi e tailleur.

Caricando molto i miei gesti e facendo tutto molto lentamente, mi alzai la gonna stretta, fino ai fianchi, e scoprii il grosso culo chiaro, abbassando le collant, fino a sotto le ginocchia… ma non bastava e non ero pratica. Provai ad abbassarmi ma, con le calze strette, rischiavo di perdere l’equilibrio.

Don Liborio era sbiancato, guardando da dietro. A parte lo “spettacolo” cui non era preparato, dovette credere che ero pure senza mutandine. Probabilmente non aveva mai visto una donna in perizoma davanti a se. Calai giù, piano piano, anche quello; il filo nero scendeva lungo le mia cosce chiare, sottolineando le mie forme e mandando il povero vecchio in visibilio.

Il posto che avevo scelto, per farmi vedere meglio dal vecchio, era lontano da ogni appiglio… non un solo ramo per tenermi con la mano.

Allora divenni ancora più sfacciata, rischiando anche di offendere il malcapitato.

L’età c’era, certo! E se fosse stato impotente? E se aveva subito qualche operazione? Alle persone anziane succede.

– Don Liborio – dissi a bassa voce, fingendomi perduta – mi date una mano? Io qua cado, sicuro!

Lui si avvicinò, guardandosi intorno nervoso; probabilmente aveva più vergogna per lui che per me.

Mi tenni alla sua mano, in precario equilibro, e finalmente lasciai sgorgare la mia abbondante pipì, acuita anche dal freddo che comunque iniziava a farsi sentire.

Il vecchio trovò la forza di sussurrare solo queste parole:

– Madonna mia, madonna… signo’, vuje me fate morì, a me!

– Ma no, perchè? Voi siete così bravo. – finsi una grande ingenuità – adesso mi asciugo e abbiamo finito, va bene? Tenete un fazzoletto pulito? –

Come un automa, prese il fazzoletto e me lo porse, ma io, infoiata e non paga, mi voltai verso di lui col sedere e chinandomi in avanti dissi:

– Potete asciugarmi voi, don Liborio? Ho paura di inciampare nelle calze.

Il vecchio balbettò qualcosa, ma si decise e, con grande delicatezza, tamponò la vagina con la stoffa. Agiva lentamente e credo fosse rimasto incantato.

Standogli abbastanza vicino, potei costatare ciò di cui ero già certa, conoscendolo: era un uomo pulito e non puzzava. Forse, eccitata come mi ritrovavo, probabilmente, non mi sarei fatta troppi scrupoli… ma il fatto che, qualsiasi cosa sarebbe accaduta, mi trovassi in compagnia di un uomo pulito, mi rincuorava e mi faceva sentire a mio agio. I cattivi odori mi frenano…

– Signò, perdonate… io … forse è meglio che me ne vado! – sudava e incespicava sulle parole – Non mi fate fare nu’sproposito! Io vi rispetto …

– Ma lo so, lo so … voi siete un angelo. – dissi pronta.

In quella assurda situazione, nel boschetto di pomeriggio, io ero di fronte al vecchio contadino e, come se fosse la cosa più naturale del mondo, tenevo giacca, top e gonna di sopra , mentre di sotto, ero nuda e discinta, come mamma mi ha fatto, con le calze attorcigliate agli slippini.

Lui mi guardava la vulva, che depilo solo sui lati, mentre al centro la lascio naturale, con la folta peluria, castano scuro.

Sembrava una conchiglia, un riccio di mare forse, e spiccava nettamente sulla mia carnagione assai chiara.

A quel punto, non sapendo che altre idiozie inventarmi, come fosse la cosa più naturale del mondo, gli presi la mano e me la infilai sotto la maglietta, facendo venire le sue dita a contatto col seno, enorme e morbido.

Toccare la mia pelle delicata lo fece trasalire, cercava di dire qualcosa, ma ormai era completamente in mia balia.

– Restiamo cinque minuti, si sta ancora cosi bene… – parlavo a bassa voce, adesso, per stemperare la tensione, le mie guance ormai erano di fuoco, anche per un po’ di vergogna, dopotutto stavo veramente esagerando.

Don Liborio, non più padrone de sé stesso si strinse a me, abbracciandomi in maniera grossolana e impacciata.

Mi teneva il seno, poi mi toccava la pancia, le sue dita erano forti e ruvide; sentii la sua forza e la sue decisione: quando mi strinse la vulva, come si spreme un limone… mi fece trasalire.

– Voi siete vedovo, è vero? – dissi, pur di fare finta che niente fosse… non so cosa mi avesse preso, una specie di frenesia folle. Intanto gli aprii il pantalone, un vecchio modello di lana, con i bottoni di osso; di sotto, il poverino, portava un’altra difesa, però. Certo per stare tutto il giorno all’aria aperta, doveva riguardarsi, infatti indossava poi un altro pantalone: era di un pigiama leggero, estivo.

Non oppose resistenza, quando delicatamente gli tirai giù anche quello.

Aveva le vecchie mutande bianche, gli slip di cotone, con il taglio di sbieco per fare pipì; in vita mia non li avevo mai visti, indossati.

Non mi fermava più niente, in quel momento, avrebbe potuto indossare anche una minigonna ero decisa a trovare il suo cazzo, nonostante gli strati di abbigliamento con cui si difendeva.

Non volevo niente di particolare… la mia frenetica ricerca aveva un solo scopo, primario, esaltante: volevo vedere che effetto avevo fatto a quel vecchio; volevo vedere come manifestava, fisicamente, il piacere che gli donavo.

Don Liborio ormai affannava: aveva gli occhi socchiusi e biascicava qualcosa:

– Bella, bella siete… – intanto, goffamente, si muoveva a scatti, cercando, a modo suo di accarezzarmi, tutta. Più che accarezzarmi, stringeva la mia carne, come se volesse tastarla. Trasecolò e rimase bloccato, quando si rese conto che, senza vergogna, cercavo di intrufolare la mano sotto l’elastico delle mutande.

Trovai la pelle liscia dell’inguine, poco tonica, poi, seguendo i peli arruffati e caldi, arrivai alla radice del suo pene.

Era molliccio, barzotto, ma pulsava e tendeva a gonfiarsi; trovai il membro piegato all’in giù e mi venne quasi da ridere… però c’era ed era consistente: ne gioii!

Si riprese e tornò a martoriarmi le zinne, arrancando sui capezzoli turgidi e spessi, mentre io cercavo di prendere dimestichezza con quel suo arnese. Non poteva certo diventare più duro, povero, schiacciato com’era e a testa in giù. Glielo ripassai tutto, con la mano appiattita, per affondare in profondità, tra le gambe. Quando gli catturai il glande, abbastanza spropositato e coperto, quasi del tutto, dal prepuzio, lo trovai bagnato di smegma, tiepido e attaccaticcio. La scoperta mi fece rabbrividire, lanciandomi lungo la schiena fitte di piacere, mi veniva da piegarmi su me stessa.

– Controllate che nessuno ci vede – intimai; non avevo intenzione di portarmelo in casa… volevo gustarmelo tutta la scena come l’avevo sognata: un rapporto bucolico, persi nella natura e goduta alla svelta, come piace a me.

Avrei potuto essere presa e sbattuta, senza troppi riguardi, dall’arrapato “signorotto” di turno, come accadeva un secolo fa.

Ci spostammo più dietro, verso il grosso castagno e feci del mio meglio per non cadere. Mi aggrappai ai pantaloni del vecchio e gli tirai tutto giù, lasciandolo mezzo nudo, con le gambe glabre e magre. Tra le cosce, alla luce del meriggio inoltrato, una massa molto scura attraeva tutto il mio interesse e la mia libido.

Il suo cazzo era cupo e per niente piccolo, solo non era in erezione totale, oscillava, libero, come una proboscide a ogni piccolo movimento.

Però la cosa veramente grande era lo scroto… io non ero mai stata con un uomo anziano e non potevo saperlo, aveva palle grosse in una sacca rugosa, scura come fosse un negro, sembrava una sacca di cuoio… l’immagine era magnetica, aveva qualcosa di osceno che, però, mi attraeva… un certo fascino peccaminoso, proibito. Non mi ero mai sentita tanto trasgressiva, anche perchè (cosa rarissima) tutto dipendeva dalla mia iniziativa… il vecchio era pressoché passivo.

Mio marito non ne sapeva niente, non avrebbe potuto nemmeno immaginarselo. Era la prima volta, in venti anni che lo tradivo, in realtà. E probabilmente glielo avrei anche confessato; per ora, tutto stava succedendo così in fretta.

Ero certa che l’uomo non subisse un pompino chissà da quanto… forse era solo una mia supposizione, ma mi piaceva pensarlo.

– Si sta facendo scuro – dissi, senza un particolare motivo, giusto per non fare tutto in silenzio; don Liborio era un automa nelle mie mani e non profferiva un pensiero compiuto da oltre un quarto d’ora.

Puntellandomi bene sui piedi, gli presi in mano tutto “il pacco” e me lo tirai verso la bocca. Ebbi la netta sensazione che il vecchio, se avesse avuto la possibilità di scegliere, sarebbe scappato via, probabilmente non riusciva a convincersi di ciò che gli stava capitando.

La sua titubanza mi rese più accanita. Mi avventai sulle sue gonadi, succhiando e arrancando, decisa a prendere in bocca una di quelle grosse, morbide, palle. Ci riuscii.

I peli del vecchio erano umidicci e odoravano di maschio.

Dopo una gustosa leccata, mi dedicai alla sua asta, che, attimo dopo attimo, diventava sempre più rigida e imponente. Don Liborio doveva aver avuto un cazzo notevole, da giovane. Me lo indirizzai tra le labbra e gli presi il glande in bocca, succhiandolo decisa.

Lui mi stava cadendo addosso e dovette aggrapparsi alla scala. Stringeva le gambe e cercava di sottrarsi, involontariamente; probabilmente era per la goduria.

– Signò che mi fai, mamma mia… che mi fai! –

Non potevo né volevo rispondere. Vista la sua reazione spropositata, mi dedicai anima e corpo al bocchino, cercando di portare don Liborio alle stelle.

Quando riuscivo a prenderlo quasi tutto in bocca, lui si piegava sulla pancia, come se dovesse orinare e si sforzasse per trattenerla. Non riuscivo a fermarmi, ero molto eccitata e mi strusciavo, frenetica, le dita sulle grandi labbra, incapace di resistere alla voglia di trastullarmi.

– Tra poco ve ne dovete andare, facciamo presto. – gli dissi liberandomi la gola – Riuscite a venire? Volete arrivare? –

Capii che confermava ma era troppo sperduto nella sua estasi, per rispondere in maniera sensata; allora mi alzai e cercai di portare a termine l’accoppiamento prima possibile.

Era tardi. Era rischioso… e, infine, non sapevo il vecchio che tempi avesse, poteva pure metterci ancora mezz’ora.

Non mi andava di lasciarlo andare via a bocca asciutta, poverino, chissà da quanto non scopava; ma neppure mi andava di menarglielo in tutti i modi pur di farlo arrivare. Sarebbe diventato noioso e seccante: non era mica una puttana, dopo tutto.

L’albero che ci faceva da paravento, verso la casa e il resto del giardino, aveva una comoda sporgenza: lo spezzone di un ramo potato da tempo.

Mi ci accostai e lo usai per ancorami con la mano, così, potei mettermi a novanta gradi, considerando che era la posizione migliore per gestire l’introduzione del suo pene. Dopotutto, eravamo in posizione così precaria, là fuori, che non ci si poteva permettere grandi performance.

Tutti quegli arzigogoli mentali, su luogo e posizioni, le poche parole scambiate con lui, senza amore, senza trasporto, ma solo con l’obiettivo, preciso, di fare una porcata con un vecchio laido, mi rinvigorirono il piacere e ricaricavano di umori la patatina.

“Ottimo, pensai, fradicia come sono, dovrebbe scivolarmi dentro facilmente.”

Guardai con attenzione il membro di lui, che era al mio fianco. Si masturbava aspettando, compostamente, il suo momento. Riflettei un attimo e capii tutta la situazione: don Liborio era stato un superdotato, negli anni d’oro. Ora, con l’età, il sangue non aveva più la stessa forza e, nonostante fosse gonfio come un palloncino, non era molto duro.

– Venite dietro! – gli ordinai e lui eseguì, senza dire una sola parola.

Mi puntò subito il glande in figa, ma quando premeva per entrarmi dentro, il suo pene si piegava. Mi impossessai della punta con la mano libera, e, da sotto, con le dita cercai di pressarmelo tra le grandi labbra.

Lo mollai di nuovo; riempii la mano di saliva e me la ripassai in figa per essere lubrificata al massimo. La mia cosina era per natura molto stretta e, se un cazzo non era bello, consistente, non era facile introdurcelo, mi era già successo.

Ricominciammo ad armeggiare: io col glande che forzavo l’apertura e don Liborio, che si teneva il lungo bastone stretto in mano, come un capitone per non farlo sgusciare via.

“Ecco, ci siamo” pensai, quando finalmente, avvertii il suo ingresso nella mia natura.

Piano piano, don Liborio, forzando e spingendo molto lentamente, s’intrufolò in me col lungo serpente gonfio e riuscì a possedermi.

Dopo pochi attimi mi era dentro fino ai coglioni, il cui contatto, mi diede un rovente piacere che mi attraversò fino alla nuca. Avevo la pelle d’oca, e non per il freddo della sera, ve lo assicuro.

Il vecchio, ora che comandava e fotteva, si bloccò dentro di me. Per non rischiare di uscire dalla vagina, non chiavava, piuttosto, esercitava dei piccoli movimenti sussultori, delle piccole spinte, aiutandosi con le mani che mi tenevano bloccata per i fianchi.

Sentirmi tutta riempita da quel coso che spingeva mi portò a un lungo stato d’estasi. Quando il vecchio, raggiunto un ritmo che gli confaceva, con una mano si spinse in avanti per cercarmi le poppe, le liberai dalla maglia e dal reggiseno, per evitare che mi rovinasse gli indumenti.

Ora, nel giardino, compivamo l’antica copula in mezzo al verde. In mezzo alla natura, fredda, di dicembre.

In modo discinto, in totale abbandono, mi lasciavo chiavare da quel poveretto che non vedeva la figa da anni. Mi toccava con bramosia anche il sedere e poi, quando ci riusciva, si aggrappava a una delle tette, che ballonzolavano sotto i colpetti di cazzo che mi imponeva.

Don Liborio aveva le gambe un po’ piegate per mettersi meglio a favore della mia vagina aperta.

Quando mi accorsi che l’eccitazione gli aveva reso il cazzo estremamente duro, quando ne sentii la presenza viva fino in pancia, i movimenti del vecchio diventarono più virili e, anche se per poco, iniziò a scoparmi veramente.

Era pur sempre un uomo, forte e sano. Si rizzò sulle gambe e cominciò a stantuffare come un toro sulla giovenca. Tirava, annaspava e chiavava. Dopo nemmeno due minuti, soffiando dal naso, si irrigidì, gemendo, e allora capii che stava per schizzare.

Me lo tolsi da dentro mentre le prime gocce di sperma già mi irroravano la figa, ma non rinunciai a voltarmi e a prendergli il cazzo in mano… Volevo vederla e sentirla la sua sborra. In fondo, tutto quello che era accaduto, era frutto della mia curiosità riguardo a come sarebbe venuto il vecchio contadino.

Lo sperma gocciolava a fiotti, come spinto da pulsazioni, era bianco, diafano, mi sembrava molto più liquido rispetto a quello denso e appiccicoso di mio marito.

Ero in estasi, tenevo il cazzone con una mano e le sue palle nel palmo dell’altra.

Glielo presi nuovamente in bocca. Lo sperma usciva ancora. Succhiai, ne ricevetti ancora, sulla lingua.

Il sapore era più o meno il solito, mentre l’odore era meno penetrante nelle narici.

Mentre mi accanivo, sovreccitata, non feci caso al poveretto, che per poco non mi sveniva addosso per il piacere e la stanchezza. Si tenne all’albero per tenersi in piedi.

– Mamma mia, mamma mia… signò! – mormorava – Signò, non mi sento più le gambe… non mi trattengo… –

Non capii bene. Ero troppo intenta a succhiare il pene, molle ma piacevole; mi resi conto del suo avvertimento solo quando un fiotto salato mi invase la bocca: arretrai disgustata.

Ecco di cosa mi voleva avvertire, gli scappava la piscia e proprio non riusciva a trattenerla.

Non mi arrabbiai, non volevo mortificarlo. Mi alzai subito e, di fianco, gli tenni il pisello per tutta la lunga pisciata, divertendomi a indirizzare il getto a destra e a manca.

– Io vado dentro, don Libo’… s’è fatto tardi. Buonaserata! – in un attimo mi ricomposi e lo lasciai là fuori, a riprendersi, nell’oscurità della sera incombente.

Arrivata a casa, davanti allo specchio, mi resi conto della devastazione del mio abbigliamento.

La maglietta era sporca di sborra e ancora umida, le calze si erano sfilate in più punti e il tailleur era tutto stropicciato, ma ne era valsa la pena.

Non potei permettermi di venire a mia volta, come mi piace fare, era veramente assai tardi.

Fu poi quella notte che tentai il tutto per tutto e quando mio marito, completamente ignaro del mio tradimento, arrivò a letto, lo aspettai tra le lenzuola, completamente nuda. Percepì subito il mio messaggio e lentamente iniziò a carezzarmi, con delicatezza. Nascosta, dietro la schiena, tenevo la maglietta nera intrisa di sperma, ormai secco.

Appena sarebbe stato più eccitato, gliel’avrei mostrata per raccontargli questa storia, così, proprio come l’ho appena confessata a voi.
Voi che ne dite, mi perdonerà?

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